Manzano, 1970
Rassegna stampa
   
Albino Lucatello (quarantatre anni), nato a Venezia, trapiantato a Tarcento, insegna all’Istituto d’Arte di Udine, nella mostra ha quattordici tele alle pareti e tre sul soffitto di una sala tutta bianca di tela, così arredata appositamente per ospitare le opere che appartengono decisamente a quella corrente che il suo fondatore, Lucio Fontana, battezzò "spazialismo": grandi tondi o quadrati, o rettangoli tutti bianchi, o tutti rossi aragosta e tutti verde bottiglia: sui fondi e dello stesso identico colore s’intrecciano strani e sibillini ghirigori, cordoncini di pasta di colore di sezione circolare e del diametro delle bocche dei tubetti dai quali vengono direttamente strizzati sulla tela. Sistema non certo nuovo, anzi, e il cui effetto visivo dipende dal modo col quale i dipinti sono investiti dalla luce, cioè dalla forma e dall’intensità delle ombre portate dai rilievi. Anche in questo caso viene fatto di parlare di decorazione, cioè di un qualche cosa che deve funzionare insieme all’ambiente architettonico, un qualche cosa che si prefigge di dare movimento, vibrazione, vita a pareti e soffitti. Mentre l’astratto di Baldan ha la logica della razionale figura geometrica, questo di Lucatello sembra abbandonato all’irraziocinio gestuale, anarchico sul piano dei significati sia palesi che nascosti e sembra altresì ancora in fase sperimentale che nemmeno cerca una conclusione nel senso comunemente accessibile.
 

da “Il Piccolo”,
24 aprile 1970

LUCATELLO

di Arturo Manzano

 

 


inizio pagina