Sergio Altieri
Testimonianze
   
Albino l’avevo conosciuto qualche anno prima che venisse in Friuli. Mi avevano mandato a Venezia per organizzare la partecipazione dei veneti a una mostra che si teneva a Gradisca tra il ’51 e il ’54. Sulla porta del caffè “Ai artisti”, in Campo S. Barnaba, c’era un tipo biondo, vestito di bianco. Sorrideva dietro una nuvola di fumo azzurrino. Albino era un pittore affermato, viveva in una città come Venezia e vendeva quadri in America. Ma offrì al ragazzo sconosciuto ed impacciato una accoglienza insieme gentile e grandiosa: sigarette estere e bevande colorate, strane, mai viste.
Vedova, Santomaso e Pizzinato alla Salute, Sergi sul Rio Nuovo, Renzini alla Fondamenta Malcanton, Borsato, Barbaro e Schulz a palazzo Carminati, Pontini in Terà, Morandis, Bacci e Gaspari alla Taverna Fenice, giocavano a scopone con Guidi che non sapeva sparigliare. Da uno studio all’altro raccoglievamo quadri per quella mostra in provincia. Bepi Longo aveva il volto devastato da. una crudele malattia. “Non impressionarti” dice Albino. “Anche per lui, poverino che non si accorga”.
Ci incontrammo dieci anni più tardi in Friuli. Il neorealismo era finito e non dipingevamo più brutti quadri, non quelli, almeno. Non si parlava più di Contenuti, bensì di Operazioni. Ma Albino andava in giro con quel suo motorino tra Buia e Tarcento, si fermava sotto l’albero dell’osteria, parlava con la vecchietta. E intanto guardava il fiume, i ciottoli bianchi, l’azzurro, la collina, il verde, la montagna, il sole. Ne traeva i simboli della forza, dell’allegria e delle invalicabili barriere.
Si parlava poco del nostro lavoro e molto di altre cose, si scherzava, io litigavo con Giselda. Cosa c’era da parlare? Se in un quadro vedi già qualcuno che hai incontrato per le strade sul fare della sera, quando è cattivo tempo, o l’albero che tendeva i suoi rami mentre passavi col treno o una collina dormiente (i soliti luoghi comuni), allora cosa c’è da parlare?
Quattro o cinque amici molto diversi nel vivere e nel dipingere ma vicini nel modo di considerare questo mestiere. Eravamo rimasti indietro, insomma.
Per me Albino era, soprattutto, uno che veniva da Venezia e che da quella città portava, assieme a un’aria da gran signore, le certezze di chi è nato all’ombra dei Frari. Qualche volta, davanti a un quadro che intendevo cancellare, bastava che Albino dicesse tranquillamente “sei matto”.
“Ti xe mato” me lo diceva anche per un altro motivo, la mia idea ricorrente di organizzare gli artisti. Ci eravamo incontrati la prima volta per una mostra sostenuta dai soldi degli operai isontini e non c’eravamo allontanati molto da quelle motivazioni. La pubblica istituzione come controparte di un sindacato degli artisti, un committente che sostituisse, almeno parzialmente il collezionismo ricco. La sua ironia e la mia ostinazione nascondevano male il nostro disagi. "Ma il nostro è un mondo schizoide, cari amici".
Era caratteristica la sua attenzione per la persona sincera, anche se modesta, “poarin”. Mentre a qualche persona molto intelligente toccava la battuta sconcertante ed impietosa. Una volta mi rammaricavo di non saper capire l’arte del Veronese, scandalizzando un collega. Albino prima liquidò il Veronese, poi il collega. Dopo, in strada, camminando svelto come usava, la sigaretta tra le dita, parlava dei teleri di S. Sebastiano come se li avesse dipinti lui e sorrideva tutto contento dei suoi paradossi.
Questo era, che della pittura si poteva dire quello che si voleva, tanto le parole c’entravano poco.
 

TESTIMONIANZE
(dal catalogo della mostra "20 anni di pittura",
Museo d'Arte Moderna,
Udine, 1988)

Sergio Altieri

 

 


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